Il dimenticato Folgore, dopo un inizio nel Futurismo, che gli servì per nutrire di iconoclastia la sua vena di umorista, dedicò la sua scrittura alle caricature di luoghi comuni letterari e meno, di vanità di narratori e poeti: e per misurarne il grado di graffiante comicità basti ricordare che egli per un certo tempo collaborò nell'officina di Petrolini. Attuava, con quanto di tronfio, di gonfio, di falso trovava nelle mode culturali (e oggi diremmo: nei consumi culturali), la teoria, in fondo malinconica e pessimistica, degli occhiali, da usare «non per illuderci, ma per guardare la realtà attraverso vetri rosa, vetri verdi, vetri gialli, con l'unica mira di applicare alla natura una tinta comica, che improvvisa contrasti impensati e analogie bizzarre». Qui è il poliziesco deduttivo, alla Sherlock Holmes che in quegli anni Trenta arrivava in Italia, ad essere rivoltato nel suo grottesco. Gli elementi ci sono tutti: dal detective inglese infallibile e presuntuoso (si chiama Tip), al suo bolso Watson che fa voce narrante, e aristocratici lord, fanciulle irresistibili, poliziotti incapaci e giornalisti impiccioni, gangster, cinesi, fantasmi, vampiri e serpenti velenosi; l'intreccio è da «giallo della camera chiusa» con immancabile convocazione finale di tutti i personaggi per spiegare l'enigma, ma movimentato da altre situazioni: morti sospette, rapimenti e inseguimenti, travestimenti, colpi di scena. E su tutto cade una tempesta di giochi di parole, di freddure, di parodie, di comicità dell'assurdo utili a demistificare un genere che serve, secondo Folgore, a persone che «per aver letto dei romanzi che non fanno dormire, credono di essere veramente svegli».
Nessun commento:
Posta un commento