L'apparente insensatezza di esporsi ad avventure che mettono a rischio la propria vita e l'impossibilità a resistere all'ignoto, le difficoltà e la brutalità della natura e i propri e umanissimi fantasmi: è il mistero e il fascino dell'alpinismo. Perché scalare? Perché mettere a rischio la propria vita? E farlo facendo ricorso a ogni mezzo o seguendo un'etica rigorosa? Nel corso di quasi due secoli e mezzo di vita, l'alpinismo ha subito innumerevoli rivoluzioni. Non solo e non tanto delle tecniche e degli strumenti, quanto piuttosto della sua stessa etica, delle "visioni verticali" che l'hanno attraversato. C'è stato un alpinismo esplorativo, legato a una dimensione scientifica e conoscitiva; uno romantico, fondato sul confronto a "mani nude" con la roccia; uno eroico, tutto teso alla ricerca della difficoltà estrema; fino alle forme commerciali e sportive che stiamo vivendo. Ognuna di queste "visioni" ha costruito una sua dimensione morale, su ciò che era lecito e ciò che non lo era, su come si "doveva" andare in montagna e sul perché lo si faceva. I grandi campioni, da Preuss a Bonatti, da Messner a Honnold, sono stati e sono anche portatori di una prospettiva che ha influenzato e condizionato migliaia di appassionati che ne hanno seguito gesta e fallimenti. A differenza di ogni altro sport, la "prima" invernale della parete nord del Cervino, la "prima" in solitaria senza ossigeno di un 8000 in Himalaya, il free solo sul granito della Yosemite Valley sono imprese che hanno scatenato dibattiti infiniti e ci interrogano ogni volta. Sono visioni che pongono domande sul senso stesso della nostra vita.
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